5gg del Carso by Galletti

Ed ecco il commento finale di chi le gare le ha commentate per davvero. Direttamente dal suo blog il copia incolla dello speaker della 5 giorni:

Vedi | http://stegal67.blogspot.it/2016/09/5-giorni-dello-scarso-in-elite.html?m=1|

5 giorni dello (S)Carso in Elite

“Oggi potete essere venuti fin qui per partecipare o per vincere. Se siete qui per partecipare, siete i benvenuti e nessuno potrà rimproverarvi per un piazzamento lontano dal vincitore. Uno solo vince la gara. Ma se siete qui per cercare di essere quell’uno, allora dovete essere pronti ad arrivare al traguardo con la maglia sporca ed i pantaloni strappati, stringendo i denti e respingendo la fatica e le lacrime. Questa è Gropada signori! E Gropada non perdona. A voi la scelta, se farne un enorme parcheggio fino al confine con la Slovenia ed oltre, o se farne una carta da orienteering… io propendo ancora per la carta da orienteering.”

Così parla l’Angelo Sterminatore.

Poi parte la musica di “Welcome to the jungle” dei Guns ‘n Roses.

E pensare che eravamo solo al primo pomeriggio di venerdì, ancora nella prima metà di quella che si sarebbe dimostrata una faticosa, lunga, a tratti interminabile, esaltante “5 giorni del Carso”. Per fortuna che dietro al microfono c’era anche Wolfgang Poetsch, altrimenti le cose sarebbero andate in modo molto diverso; in primo luogo credo che non avrei potuto terminare la mia gara a lunga distanza in MElite, forse l’ultima MElite Long della mia carriera? In secondo luogo il tasso di follia, che parte dalle vene del cervello ed arriva alla mia bocca e si travasa nel microfono, stava già mostrando un ingresso in piena “zona pericolo” ed eravamo appena alla terza gara… addirittura solo alla prima gara con il pienone di atleti e pubblico. Se fossi rimasto al microfono da solo, temo che avrei potuto dire cose irripetibili.

Adesso l’obiettivo del diario dovrebbe essere quello di spiegare come sono arrivato fino a Gropada e come l’avventura è proseguita fino al traguardo.

Comincio con il dire che, anche questa volta, il mio arrivo in zona gara martedì sera è stato tra il delirante ed il drammatico. Tre giorni prima, avevo infatti annunciato la mia rinuncia alla trasferta a causa delle condizioni del papà che non potevano lasciarmi assolutamente tranquillo (ed il Carso non è purtroppo all’angolo della strada…). Poi c’è una schiarita nelle condizioni, mio padre comincia a tornare (almeno come spirito) quello che fino ad un paio di anni fa si faceva 100 vasche a delfino ogni giorno, mia madre si mette tranquilla e tutti insieme decidiamo che posso partire. Con un orecchio sempre al cellulare, ma con una concreta speranza di arrivare fino al termine della 5 giorni. Risultato: martedì sera tardi, dopo 5 ore di viaggio solitario in auto, mi accascio sul letto a Duino ma sono pronto per aprire le danze il mattino dopo al Villaggio del Pescatore, prima tappa, in Elite.

Questa faccenda dell’Elite era una boutade che avrebbe dovuto servire più che altro come stimolo mentale, non tanto fisico. Nel bollettino di gara avevo letto: middle, middle, middle (a Gropada… quindi mica tanto middle), campionato italiano lunga distanza, poi sprint e staffetta. Per la sprint non c’è problema. Per la staffetta sono iscritto in M45 con Paolo e Lucia. Le tre middle, trattandosi di tappe di una 5 giorni, non saranno così insidiose (Gropada a parte). Quindi lascio perdere le mie velleità, che sono poi semplici speranze destinate ad infrangersi sulla carta di gara, di completare la gara Long e mi iscrivo in Elite: se devo commentare le gare degli Elite, meglio essere nelle condizioni di sapere cosa faranno, dove andranno, quanto patiranno. Cosa… dove… perché. Il “chi” di un normale pezzo di cronaca rimane il sottoscritto. Il “perché” è sempre nascosto nelle nebbie della follia.

Mercoledì mattina, con un vento di borino che lévati, inizio dunque la mia avventura sulle rive del Timavo. Sarà la tensione accumulata nei giorni precedenti, sarà la prima notte di sonno profondo che ho appena passato, sarà che finalmente mi sento pervaso da un po’ di tranquillità che manca da più di un mese… affronto la gara con un piglio decisamente pimpante e l’orienteering mi sembra tutto facile.

1_villaggio

Probabilmente non si tratta del terreno più difficile del mondo, ma appoggiandomi a tutte le tracce di sentiero ed a tutti i gialli (prati) e giallini (prati appena più grezzi) riesco a venire bene a capo di tutte le lanterne. Mi azzardo persino a dire che l’errore più grosso di giornata (le indecisioni, al mio livello, non si contano come errori) lo faccio alla 8, che è a bordo strada e che pensavo di vedere da lontano; invece è dietro un cespuglio, ed i 20 secondi che resto lì come quello della maschèrpa ad aspettare che salti fuori lei da sola mi sembreranno alla fine un errore gravissimo. Dalla 9 fino al passaggio al punto spettacolo si tratta di scegliere con cura il sentiero da percorrere, Dio mi scampi che io mi metta a correre fuori dai sentieri!, e magari soffermarsi un attimo a guardare la piccola insenatura ed il mare alla 10, in quello che è davvero il punto spettacolo della gara ma solo per le categorie che hanno la fortuna di arrivarci. Poi (sembra incredibile) per arrivare alla 15 non c’è niente di meglio da fare che raggiungere la trincea e correrci agevolmente dentro fino al punto. Sbaglio, quella si, la 16 arrivando fino a vedere la linea elettrica che sta oltre la 17, ma mi riprendo bene ed addirittura mi posso bullare della mia tratta 19-20, tutta in bussola e dritta sotto la linea rossa (lasciando invero molta pelle sul ginepro ed i rovi di quella zona verde), laddove parecchi concorrenti che sentirò nel dopo gara cercano di fare il giro da sotto e finiscono per perdersi in un labirinto di cespugli che invero è più fitto dell’aperto brullo che compare in mappa.

1 ora e 13 minuti di gara per me e possiamo mettere un “fatto!” sulla prima tappa. Il migliore è un ragazzino austriaco alto, molto magro (secondo i miei parametri), molto bello (secondo tutte le ragazzine della Punto Nord Monza) che ci mette 48 minuti, ma in fondo lui è l’ottavo del mondiale junior mentre io sono solo l’ottavo del mondiale di “cene a base di schifezze” dietro a Ciccio di Nonna Papera e davanti al John Belushi di Animal House, quindi torno a cuccia con un bel po’ di fierezza in testa.

La magia orientistica del primo giorno sembra però abbandonarmi già durante la seconda tappa, nella quale devo lottare come un ossesso per arrivare al traguardo. Ennesima carta di gara nuova , per me, quella del Santuario di Monte Grisa.

Parto al mattino con un bel freschetto e la prima parte di gara è velocissima, e si si può anche appoggiare ai sentieri. Oddio… velocissima… per dire che io sono velocissimo dovrei perlomeno dimenticare i 3 minuti passati a girare come un allocco nella zona della 1, al centro di un’area delimitata da un-sentiero, una-strada, una-bucaconsassi: tutte cose evidentissime, perché o ci corro sopra (il sentiero), o la guardo da pochi metri (la strada) o ci butto un occhio dentro (la buca con i sassi). Ma ci metto pur sempre 3 minuti per trovare la buca giusta! Riparto come un centravanti inseguito da Franco Baresi e picchio dritto sulla 2, la 3, la 4 e la 5 (il bellissimo “menhir” che in realtà serviva per il puntamento a nord dei cannoni dal forte di Trieste, a ricordo di tempi passati molto brutti e di un Carso completamente brullo). Dritto alla 6 “come faccio ad arrivare al mio punto se sta al centro di una zona delimitata dalle fettucce rosse?!?!?… ah! Le fettucce sono solo dalla mia parte della buca…”. Dritto alla 7 che per fortuna ha una specie di scivolo per scendere in fondo alla dolina. Dritto alla 8 che Poetsch non sarà in grado di trovare (ARH! ARH! ARH!) e sentiero fino alla 9, con il bosco dalla parte sud della collina che sembra una pineta di Bedolpian.

Qui finisce il mio paradiso orientistico. Per andare alla 10, il mio piano prevede di scendere fino alla strada, bucare di slancio (diciamo pure “con il mio peso e la forza della gravità”) quel sottile strato di verde1, entrare in una zona di bosco che mi aspetto paragonabile ai Mille Pini di Bedolpian e raggiungere facilmente il punto. Purtroppo il “sottile strato di verde1” è pura giungla del delta del Mekong, e fino al muretto è solo un verde2 da parolacce e brutte cose dette sulle mamme altrui. Conservo un indimenticabile ricordo di me stesso che corre con il vento a favore e l’erba leggermente mossa dal borìno, come in una pubblicità della Nike, sul pianetto che dalla 11 porta alla 12. Poi arriva il momento di affrontare il loop 13-18 di cui conservo dimenticabili ricordi, e milioni di abrasioni! Cerco invano di contare i muretti, di stare in piedi sul terreno carsico che di più non si può, di dire a me stesso “coraggio! E’ il primo impatto con il Carso! Ti servirà per i prossimi giorni!” laddove però impatto vuol dire con i sassi sul terreno, con i muretti che franano sotto di me, e con i rovi e le spine di ogni maledetto cespuglio. Perdo 5 minuti e mezzo alla 14, perché la mia mappa non riporta in corrispondenza del punto 61 la relativa descrizione: con il senno di poi (e l’ingrandimento al 250% di uno scan 300x300dpi massima risoluzione) mi accorgo che quella che dovrei cercare è una buca. Nella realtà mi ritrovo in un anfiteatro di muri, muretti, sassi e curve di livello: non so cosa cercare e su che cosa concentrarmi! Guardo dietro ogni sasso, muretto e roccia, e solo dopo vane ricerche per disperazione mi accorgo di una buca dietro ad un sasso, che nasconde la lanterna.

Lo chiamo “effetto funghi o fragole”: da bambino, quando mia madre mi mandava nel bosco, se andavo con il cestino ed il coltellino era per i funghi che servivano al risotto, e l’occhio rimaneva concentrato a scorgere scodellette e vaciotti tra il muschio e l’erba. Se mi mandava con il contenitore lungo di plastica per le fragole della macedonia, l’occhio riconosceva ogni pixel rosso. Non mi è mai capitato di trovare, nella stessa spedizione, funghi E fragole! Inutile: devo sapere cosa vado a cercare, e quella descrizione punto mi sarebbe proprio servita.

Dalla 18 ad andare verso sud è un altro attraversamento di un verde2 terribile; le energie vanno rapidamente in riserva ed il mio tempo di gara di 85 minuti sarebbe menzionabile solo se gli altri Elite facessero ancora cilecca. Invece arriva il solito ragazzino austriaco alto e magro (e bello… si! Ho capito Alessia Eleonora e Anita! E’ bello…) e mi dice il suo tempo “….ty-eight”. Io penso “forty-eight” e dico “not bad!”. E lui “Not …tyeight, …ty-eight!”. E io “Yes, forty-eight, understood”. E lui “NOT FORTY-EIGHT! THIRTY-EIGHT! THREE EIGHT!” e mi fa segno anche con le dita. Lo calmerò spedendolo immediatamente a fare l’intervista con la RAI.

Una cosa curiosa è che a Monte Grisa non c’è stato speakeraggio. Avevamo già capito, vista la sacralità della zona, che avremmo dovuto limitare il contributo di rumore al minimo; non ci aspettavamo, nessuno degli organizzatori si aspettava, che non avremmo potuto montare l’impianto audio perché proprio quel giorno e all’ora di gara (e dopo TRE ANNI di attesa) gli alti prelati del luogo avevano deciso di far arrivare la processione con la nuova mega statua del vescovo che aveva inaugurato tanti anni prima il santuario. Niente speaker, quindi, ed un po’ di delusione quando la “processione” si è rivelata essere un camion che portava la sola statua da innalzare e nessun altro. Forse qualcuno non voleva proprio sentirci blaterare!

Venerdì si arriva dunque a Gropada, carta con la quale ho un conto in sospeso da saldare ampiamente. Nella mia unica apparizione da queste parti, non ero riuscito a concludere la gara, ubriaco di muretti e in ritardo per dare il benvenuto come speaker agli atleti in gara per la Coppa Italia. La middle di Gropada parte alle 14, unica volta in cui riesco a dormire fino ad un orario decente e arrivare con calma in zona gara, e vengo accompagnato in partenza da tutta una serie di raccomandazioni e consigli: pare che ciò che ho patito nella seconda parte di gara a Monte Grisa sarà nulla rispetto a quello che affronterò a Gropada; e che, per continuità, Gropada non sarà nulla rispetto al terreno di Sgonico. Io continuo a pensare “andiamo bene!”, che finirà nuovamente con un risultato Stegal 0 – Gropada 1 e che l’Elite a Sgonico è un passo troppo lungo per le mie gambe.

In effetti, guardando la carta di gara…

… non si fa alcuna fatica a capire che la gara di Gropada è divisa in due parti distinte: una nella quale mi sembra di viaggiare bene, di “essere in carta”, di fare bene il mio compito e tutto sommato di non patire proprio le difficoltà del percorso. L’altra è la parte nella quale tiro giù svariati mòccoli, mi pento e mi dolgo di aver scelto la categoria Elite, mi chiedo se ce la farò a finire il percorso, eccetera.

La cosa strana è che la parte in cui mi sento fìgo è la prima metà del percorso, quella nell’inferno. La parte in cui mi sento il solito inguardabile impiegato panzottello è la seconda, dalla lanterna 14 in poi!

Ok… non è che io abbia viaggiato all’inizio alla velocità del TGV (Thierry Gueorgiou Velociraptor): sono andato a prendere tutti i sentieri , ed anche la strada per andare dalla 2 alla 3 e poi dalla 5 alla 6. Anche per andare dalla 12 alla 13 ho fatto la scelta “sentiero verso est e poi verso nord”; dalla 14 alla 15 ho fatto il sentierone verso nord-ovest e poi quello verso est (dopo aver accoppato a pacche su tutto il corpo un nugolo di mosche cavalline… le odio!), ma la missione era sopravvivere e credo di esserci riuscito abbastanza bene. 93 minuti per una middle sono una roba tremenda, soprattutto se confrontato con il tempo del ragazzino austriaco altomagrobelloeoraancheantipatico, ma mi ha confortato il fatto che 93 minuti per due sono tre ore e 6 minuti, e che la middle di Gropada era la metà della Long di Sgonico. Avrei messo nel mirino della Long le tre ore di gara, e poi vediamo che succede (tanto Wolfgang Poetsch può dare il benvenuto a tutti alle 9 del mattino e proseguire da solo fino al mio arrivo).

Così venerdì sera si va a dormire presto con il solo conforto di una Pleskavica preparata da Peter Ferluga in persona. Dormire presto perché l’indomani si prospetta decisamente impegnativo:

  • Sveglia ore 5.30, dal letto salto direttamente nella tuta da gara
  • Faccio il taping rinforzato ad entrambe le caviglie
  • Alle 5.50 scendo a svegliare Goggi e a cercare di mangiare qualcosa, ma è praticamente impossibile visto l’orario (il mio stomaco si rifiuta di incamerare qualsiasi cibo, nonostante io lo minacci con la prospettiva delle tre ore di gara)
  • Alle 6.15 saliamo in auto.
  • Alle 6.25 siamo davanti alla zona arrivo. Parcheggio l’auto dove capita (memore di quanto feci l’anno scorso a Pietranera, dove al buio lasciai l’auto nello stesso modo e rischiai di bloccare tutto il traffico veicolare…)
  • Alle 6.35 prendo la strada già fettucciata verso la partenza (tutto il percorso è già predisposto)
  • Alle 7.03 parto verso l’ignoto

Non starò ovviamente a raccontare il mio peregrinare per i boschi di Sgonico step by step. La mia tattica per sopravvivere fino al traguardo è una sola: sentieri e sentieri, tracce e tracce. Tutte. Anche a costo di allungare parecchio la strada. Conosco la zona della 1 dagli europei master di qualche anno fa, e la 2 non è sbagliabile. Il terreno mi sembra persino meno insidioso di come lo ricordavo o era stato descritto, e per la 3 si può fare un ampio giro su sentiero fino a sotto il punto, ugualmente non sbagliabile.

Per andare alla 4 devo solo seguire con calma e pazienza ogni piccolo sentiero; mi “perdo” nella zona del Triangolo delle Bermude che inghiottirà in uno strano e invisibile bivio verso sud anche i due Scalet, Pezzati, Negrello, Bettega e (se non vado errato) Tenani, ma dopo un interminabile numero di minuti arrivo alla 4, che affronto larga cercando di stare il più possibile sul sentierino. Sbaglio la 6, che trovo più per culo che per anima, ma mi rifaccio alla 7 dalla quale ero già passato prima in uno strano impeto da “passiamoci adesso, che magari dopo mi ricordo dov’è”. Adesso si tratta solo di far passare la seconda ora di gara, dopo che la prima è andata via liscia e con fiducia: è un’ora cruciale perché arriva con le energie già ampiamente spese e con il pensiero che ce ne sarà una terza assai più dura subito dopo.

La 8 una collinetta larga più o meno quanto uno sputo: infatti la manco, arrivo sul sentiero, risalgo fino al prato e da lì devo remare duro per ritrovarla. E’ come la sequenza 6-7: sbaglio la 8 ma faccio bene (piano ma bene) la 9, la 10 e la 11 perché sono tutte disposte lungo la “Santa Traccia prega per noi poveri orientisti”. Utilizzo tutto il sentiero che gira attorno al prato (e il ristoro, maledizione, non c’è ancora) per arrivare alla 12, e poi ne combino di tutti i colori alla 13: penso che quel muretto non sia sbagliabile, e invece finisco per girare come una gallina senza testa attorno a tutti i cespugli, i verdini, gli alberi caduti… preso dalla disperazione, quando credo di aver identificato il sentierino ad ovest del punto, lo percorro scendendo fino al bivio (sono già più vicino alla 14 che alla 13), risalgo il sentiero che sta ad est fino a che incrocio il muretto e da lì il punto torna ad essere facile.

Per gli amanti dell’orrido:

  • In rosso la parte dalla partenza alla 4 e dalla 14 alla 15
  • In blu la parte centrale, dalla 8 alla 12.

Dalla 14, per arrivare alla 15 impiego poco meno del tempo della tratta 3-4: sono davvero stanco (prenderò il terzo carbogel troppo tardi, alla 15) e non mi fido più del mio orientamento; bussola ad ovest fino al sentiero che ripercorrerò verso sud per andare alla 18, poi su lungo il sentiero fino a trovare l’altra carrabile, ma le ultime curve di livello sono terribili. Ancora più terribili quelle che devo fare per andare alla 16, in quel pezzo di gara che si rivela una autentica “salita delle lacrime e delle bestemmie” (ma io non sono blasfemo e mi devo limitare alle lacrime). Per fortuna c’è la traccia di sentiero ad ovest della 16 e 17, altrimenti ero ancora lì a cercare. Poi è (quasi) solo discesa. Ancora una volta passo da un ristoro (quello della 18) e non trovo nulla. La 19 è banale, la 20 di più e da lì si gode una vista sensazionale sulla arena di gara che si è animata di 1000 orientisti che si vedono, si fanno sentire e mi sembra addirittura di percepire che qualcuno mi ha visto e sta facendo il tifo per me. Per la 22 affido l’anima al mio Angelo Custode, che deve essere andato a lezione da Gueorgiou perché arrivo al punto dritto sotto la linea rossa! Poi è soltanto fatica, in mezzo ai recinti ed alle vigne fino all’ultimo attraversamento del terreno grezzo che mi porta al punto 24. Sento le voci degli atleti, le macchine che passano per la strada ma i piedi fanno davvero fatica a muoversi mentre l’orologio ha già scollinato le tre ore di gara.

Sbuco sul pratone in discesa e cerco di correre un po’ dandomi un contegno. Nessuno sa a che ora sono partito, nessuno sa che sono in giro da 3 ore e 4 minuti. Forse la mia andatura davvero stanca non è il massimo che ci si aspetta di vedere dal primo che arriva al traguardo, ma mentre affronto l’ultima discesa sento distintamente tra il brusio e gli incitamenti una voce che arriva direttamente da dentro la mia testa: “Ce l’hai fatta stavolta!!!”. Quello che non ero riuscito a fare l’anno scorso in Liguria, me lo sono ripreso con gli interessi ad un anno di distanza a Sgonico.

Poi ci sarà un commento interminabile della Long Distance fino al finale thrilling in volata tra Misha e Klaus per il titolo italiano. Ci sarà il trasferimento a Gradisca d’Isonzo per una sprint davvero carina ma affrontata con i piedi e le gambe che all’inizio SI RIFIUTANO di muovere altri passi di corsa.

Ci sarà una premiazione interminabile e, a 18 ore di distanza dalla sveglia, sarò in grado di tornare a letto a stomaco vuoto.

L’indomani rientro nei passi più agevoli di un over-45 per la mia frazione a staffetta, che mi fa ripercorrere buona parte degli ultimi 40 minuti della gara long.

E ci saranno altri commenti al microfono, altre premiazioni ed infine il “rompete le righe e tutti a casa”. In tutta onestà una parte di me si sta ancora chiedendo se sia un segnale più di coraggio o più di follia pensare, alle 6 e mezzo di un mattino di inizio autunno, di muovermi dalla zona di arrivo per andare a fare una gara che non ho più nelle corde da un pezzo. La risposta che mi do è sempre la stessa, ed è molto semplice: non potrei mai pensare di commentare al microfono la gara di qualcuno, se prima non ho provato io stesso a vivere quella medesima gara. So che al microfono ci sono esperti più bravi di me, che non si lasciano nemmeno cadere nella tentazione di fare qualche battuta sulla performance di questo o quella atleta. A me capita di sicuro di sbilanciarmi in qualche commento che può risultare non molto felice ma nessuno, fino ad ora e da dieci anni (infatti non è mai successo), può dirmi “provaci tu se ne sei capace”.

Forse non ne sono del tutto capace, ma almeno ci ho sempre provato.